Sabato, 13 Settembre 2014 02:07

Il decalogo del buon conflitto

Scritto da  Gerardo

Su segnalazione di Luigi De Paoli, trasmettiamo la relazione del pedagogista Daniele Novara, preparata per il Festival della mente di Sarzana, quest’anno dedicato alla creatività (e già pubblicata da il manifesto il 29 agosto 2014). L'ipotesi è che i conflitti e le discordie possano essere risolti adottando la strategia della ricomposizione che usano i bambini, quando gli adulti si astengono dal giudicare e dal reprimere.



Il decalogo del buon conflitto
di Daniele Novara*
 
Quando la cro­naca ci pro­pone un omi­ci­dio fami­liare, l’aspetto forse più inquie­tante sono le inter­vi­ste ai vicini di casa. Anche nei delitti più effe­rati, a fronte di kil­ler assolutamente con­cla­mati che magari hanno ster­mi­nato una intera fami­glia per poi a loro volta ucci­dersi, il vicino di casa ha irrimediabilmente la solita rispo­sta: «era una brava per­sona»; «era tutto tran­quillo»; «non ci siamo mai accorti di nulla, sem­brava una fami­glia felice». Si crea una distanza side­rale fra la per­ce­zione di una certa situa­zione rispetto alla sua pos­si­bile evo­lu­zione vio­lenta. Quando scatta l’allarme? Nell’immaginario comune la calma, la tran­quil­lità non pos­sono in alcun modo pre­sup­porre la vio­lenza; è solo la ten­sione o il con­flitto che la pos­sono giustificare.
 
Da qui il senso di estra­nia­zione del vicino di casa — «ma come, erano così tran­quilli, calmi, tutto sem­brava fun­zio­nare». Le ricer­che che sto por­tando avanti anche con il Cpp di Pia­cenza (Cen­tro psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei con­flitti - www.cppp.it) vanno pro­prio in que­sta dire­zione, cer­cando di bucare la solita cappa di luo­ghi comuni.
L’idea forte su cui si basano è che la vio­lenza non sia una con­se­guenza della ten­sione ma che vice­versa la vio­lenza, come la guerra, siano una con­se­guenza dell’incapacità di gestire la ten­sione, anzi addi­rit­tura di una nega­zione del con­flitto stesso. Ho chia­mato que­sta caratteristica carenza con­flit­tuale, inten­dendo pro­prio l’incapacità di stare nella ten­sione con­flit­tuale che viene vis­suta come una minac­cia insopportabile.
 
Que­sto tipo di defi­cit ha come esito che a fronte di con­tra­sti e con­tra­rietà sia rela­zio­nali che sociali le per­sone (ma anche i gruppi) si muo­vono nella logica eliminatoria per cer­care di sop­pri­mere la sor­gente umana da cui que­sta diver­genza pro­viene. Una solu­zione sem­pli­fi­ca­to­ria che dal punto di vista psi­chico, come già negli anni Ses­santa del Nove­cento aveva avver­tito Franco For­nari in Psicanalisi della guerra, assume i con­torni para­noici di voler eli­mi­nare la con­tra­rietà con la violenza.
 
Una sovrap­po­si­zione mediatica
Saper stare nel con­flitto in modo com­pe­tente diventa per­tanto una capa­cità indispensabile per l’apprendimento umano. Se a bru­cia­pelo ci venisse chie­sto «è meglio saper affron­tare i con­flitti o è meglio saperli evi­tare?» il 99% rispon­de­rebbe che è meglio saperli affron­tare. Pec­cato avvenga il con­tra­rio!
Quali sono i motivi per cui una com­pe­tenza così impor­tante come quella di liti­gare bene appare tanto lon­tana dagli automatismi edu­ca­tivi e cul­tu­rali? Le ragioni sono sostan­zial­mente due: l’alienazione seman­tica e quella infan­tile.
Le parole con­flitto, guerra e vio­lenza da sem­pre, ven­gono usate spe­cie nelle lin­gue latine come sino­nimi. Pur­troppo in que­sti anni ho potuto con­sta­tare che la sovrapposizione tra que­sti con­cetti è peg­gio­rata. Una certa cul­tura media­tica da un lato, e una certa con­fu­sione seman­tica dif­fusa nel par­lato comune, con­ti­nuano a rite­nere la vio­lenza semplicemente un con­flitto più intenso, e il con­flitto semplicemente una vio­lenza più leg­gera. Anzi direi di più: nei comu­ni­cati giornalistici è estre­ma­mente dif­fuso l’uso pro­mi­scuo dei due ter­mini, al punto che si ini­zia a par­lare della guerra in Siria e si pro­se­gue con la mas­sima natu­ra­lezza usando il ter­mine «con­flitto» come se si trat­tasse semplicemente di un sino­nimo.
 
Un esem­pio tra i tanti: «La guerra in Siria si fa sem­pre più intensa. Anche oggi sono stati bom­bar­dati alcuni quar­tieri di Dama­sco pro­vo­cando altri morti, decine se non cen­ti­naia. Pare che pure diversi bam­bini siano stati col­piti e uccisi. Il con­flitto non si atte­nua anzi più pas­sano i mesi e più la sua cru­deltà si fa effe­rata e priva di ini­bi­zioni». In que­sta cro­naca giornalistica, presa a caso tra le tante, su uno dei fronti più san­gui­nari dei nostri giorni, l’autore non sem­bra farsi par­ti­co­lari scru­poli nell’utilizzare le parole «guerra» e «con­flitto» come sino­nimi. Mi chiedo però: chi scrive que­sti arti­coli si accorge che, con il ter­mine con­flitto, sta usando la stessa parola che si usa durante le riu­nioni condominiali per defi­nire la diver­genza di opi­nioni tra due abi­tanti dello stesso codominio in fun­zione di un pro­getto che per qual­cuno costa troppo e per un altro troppo poco? O l’identico ter­mine che si uti­lizza quando due col­le­ghi sul lavoro si tro­vano agli anti­podi, in con­tra­sto su un piano di svi­luppo azien­dale, di mar­ke­ting, o su una deci­sione da assu­mere in rife­ri­mento al lavoro stesso? E anche la stessa iden­tica parola che si uti­lizza nelle rela­zioni cri­ti­che con i pro­pri figli? Tra le dina­mi­che che si sca­te­nano tra due per­sone che si tro­vano a vivere una dif­fi­coltà rela­zio­nale e quello che sta acca­dendo nella guerra in Siria di dif­fe­renza ne passa. Si fini­sce così col pro­durre un pro­fondo senso di impo­tenza rispetto alla possibilità di poter impa­rare a gestire i pro­pri conflitti.
I bam­bini sanno liti­gare bene
Se nell’uso delle parole la con­fu­sione regna sovrana, dai bam­bini può venire quella spinta per imboc­care final­mente una nuova strada. Da più di 30 anni la psicologia dell’età evo­lu­tiva sta segna­lando l’estrema capa­cità dei bam­bini nei primi 6, 7 anni di vita ad affron­tare i pro­pri litigi in una logica di accordo e di ricomposizione. Sono sia ricer­che specifiche sia osser­va­zioni più gene­rali sulla natura infan­tile. I bam­bini nei primi anni di vita usano un pen­siero molto con­tin­gente e hanno la neces­sità, se non sono sviati dagli adulti, di gio­care con i loro coe­ta­nei e di non per­dere i pic­coli com­pa­gni delle loro avven­ture. Per cui è molto raro che rinun­cino a gio­care con un amico per il ran­core gene­rato da un litigio. Varie ricer­che hanno dimo­strato la quan­tità dav­vero straordinaria di con­flitti che i bam­bini in un’ora pos­sono accu­mu­lare e che ven­gono gestiti in una logica di accordo spon­ta­neo.
 
A fronte di que­sta constatazione per­mane un vero e pro­prio tabù peda­go­gico nelle nostre cul­ture edu­ca­tive, ossia l’idea che occorra inse­gnare la giu­sti­zia ai bam­bini. È un’idea piut­to­sto ori­gi­nale per­ché il con­cetto di giu­sti­zia adulta è lontanissima da un con­cetto di giu­sti­zia infan­tile e non c’è nes­suna possibilità di sovrap­porla, non solo, è quan­to­meno inop­por­tuno pro­prio per con­sen­tire ai bam­bini di farsi le loro espe­rienze e di impa­rare dalle loro inte­ra­zioni spon­ta­nee. Que­sto tabù peda­go­gico si è espresso nella logica della ricerca del col­pe­vole attra­verso le clas­si­che domanda adulte «chi è stato?», «chi ha inco­min­ciato?», «chi ha ragione?», ecc. Dalla notte dei tempi que­sto interrogatorio appar­tiene all’infanzia di tutte le gene­ra­zioni. L’aspetto tra­gico è che il bam­bino spe­gne in que­sto modo la sua capa­cità natu­rale di accor­darsi con i coe­ta­nei per ade­guarsi alla colpevolizzazione impo­sta e sop­pri­mere le sue com­pe­tenze.
 
Con Cate­rina di Chio due anni fa abbiamo rea­liz­zato a Torino, nelle scuole dell’infanzia e ele­men­tari, una ricerca che ha coin­volto 466 alunni, veri­fi­cando il loro comportamento nei litigi prima e dopo la somministrazione alle loro inse­gnanti del metodo maieu­tico da me ideato “Liti­gare bene”. I risul­tati otte­nuti hanno rico­no­sciuto come i bam­bini siano in grado di accor­darsi se posti nelle con­di­zioni di potersi par­lare. Il metodo infatti insi­ste su que­sta dimen­sione, se si vuole para­dos­sale, ossia che nel liti­gio infan­tile non biso­gna sop­pri­mere il dibat­tito con inter­venti tipo «adesso basta, smet­te­tela, tacete, dovete volervi bene, fate la pace», men­tre è fondamentale che ogni bam­bino possa comu­ni­care all’altro la pro­pria ver­sione dei fatti con l’adulto che resta in una posi­zione neu­trale e favo­ri­sce semplicemente il confronto.
 
Alla ricerca del colpevole
La sperimentazione ha rive­lato come nelle classi dove il metodo era stato appli­cato, i bam­bini sia dell’infanzia che delle ele­men­tari miglio­ra­vano di tre volte le pro­pria capa­cità di accor­darsi. Que­sto è pro­prio l’obiettivo che il metodo si pro­pone, non di spe­gnere il liti­gio infan­tile su cui i bam­bini stessi appa­iono particolarmente com­pe­tenti, quanto didar­gli la passibilità di viverlo nella logica della ricomposizione crea­tiva, ossia del con­ti­nuare a gio­care con i pro­pri coe­ta­nei.
Come non ha senso con­fon­dere guerra e con­flitto così appare insen­sato anche cer­care pre­sunti col­pe­voli nei litigi infan­tili se non addi­rit­tura bam­bini vio­lenti come fanno certi teo­rici del bul­li­smo.
Le nostre ricer­che in atto sulla com­pe­tenza con­flit­tuale si pon­gono l’obiettivo di aprire un nuovo capi­tolo su que­sti ver­santi delle rela­zioni umane, un capi­tolo dove lo svi­luppo della capa­cità di vivere le perturbazioni e con­tra­rietà interpersonali diven­tino una fonte di appren­di­mento e non un’angoscia mortificante che spe­gne la passibilità stessa di vedere al di là del pro­prio fastidio.


* Daniele Novara è pedagogista, vive a Piacenza dove nel 1989 ha fondato il Centro Psicopedagogico per la Pace e la gestione dei conflitti, istituto orientato alla formazione e ai processi di apprendimento nelle situazioni di conflittualità. E’ autore di numerosi libri e pubblicazioni, tra cui: Litigare fa bene. Insegnare ai propri figli a gestire i conflitti per crescere più sicuri e felici, (Bur/Rizzoli).


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